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Critica

Recensioni di Andrea Sava

Prefica Salentina

Trasfigurazione di un urlo di dolore solitario, sincero, in voluto contrasto con la prezzolata protagonista, come a mettere in chiaro che si disserterà degli stati d’animo di chi comprende e crea e non ci sarà spazio alcuno per note di colore locale o facili suggestioni: L’incipit è lento ma emesso con la veemenza di chi abbia smarrito ogni forza ma non le ragioni profonde dell’intima pena: gridato nelle prime battute, dall’iniziale salto di quarta, riunirà in sé, autentico saldissimo mastice, tutto l’ordito dei tre movimenti fungendo da matrice del materiale tematico delle future trame. Ma vi è tanto altro. Nel prologo i lunghi silenzi, mai assenza di suono, caricano lo spazio sonoro di attese e colorano di nuova forza i suoni che verranno mentre i passaggi eterofonici ci richiamano immagini della natura (forse sole, vento, pioggia o semplicemente l’agitarsi dell’animo) sensazioni che non vogliono essere descrittive, forse la Musica non lo è mai, ma impronte della mente che nel significato musicale, che è autonoma forma di pensiero, si compiono per integrarsi qui in solitari lamenti. Un nuovo personaggio si presenta, collettivo, a tratti corale, che, partecipe della tragedia, sembra incedere con stati d’animo ondeggianti, sempre più magneticamente attratto dall’arcano lamento, mentre tutto sembra convergere verso la tempesta interiore. Segue l’atto I, dove l’urlo di dolore iniziale viene subito accolto e controbilanciato nel dialogo dalla risposta collettiva che lo accoglie, comprendendone forza e senso fino a farlo cosa sua con suoni sommessi, con accordi strappati, con voci solitarie nella folla che rendono sempre più saldo il legame tra i personaggi così che, a tratti, divengono indistinguibili. Poi note le lunghe del lamento solitario (ma, giunti a questo punto, si tratta della Prefica del titolo o della coscienza collettiva?) a cui si uniscono, pianissimo, gli stati d’animo e il sentire indistinto, quasi impercettibile, di tutto ciò che è intorno. Nuovamente note lunghe per l’epilogo, ma su un registro grave, che ci dicono come chi stia parlando sia altri rispetto ai personaggi apparsi finora: per l’autore è arrivato il momento di tirare le somme e per farlo dovrà parlare in prima persona nella catartica sequenza finale che, sospesa, tuttavia lascerà facoltà a ciascuno di tirare la sua personalissima somma.


Ecce Homo

Principium: lo statico accordo dell’esordio, la fissità ritmica fino all’awento del 12/8, non contraddetta dal 3/8, la reiterazione del disegno generale ripetuto per tre volte quasi “a calco” con le quattro battute iniziali di ogni frase immobili, una certa analogia dei disegni armonico e melodico in ciascuna delle sezioni ci pongono davanti ad un orizzonte che non ci potrebbe apparire più immutabile, come la vista {mi si perdoni il paragone alpino) di alte montagne imperturbabili ed eterne. Apparire, appunto, perché in ogni frase {ne conto quattro) qualcosa si muove, a tratti sembra che sia la memoria a tradirci (il do naturale all’inizio della seconda frase) altre volte il mutamento è certo, e qui torna il paragone alpino: per quanto sembri immobile, guardando dall’alto, con uno sguardo “lungo” vedremo che tutti gli eventi, per quanto sembrino “circolari”, sono lunghi nastri ove gli eventi non si ripetono mai. La controprova nel 12/8 dove il moto è continuo, lo stacco ritmico evidente, in accordo con i contenuti precedenti ma di significato altro. Stasi è anche movimento.

La vita, un continuum dove l’idea melodica iniziale enunciata con sacralità e subito ripetuta e sviluppata all’interno della matrice ritmica della seconda frase, crea l’idea della consequenzialità con cui si svolgono pensieri e opere dell’individuo che si muove nel tempo, inesorabilmente dipinto dalle quattro note degli acuti (l’orologio della vita). E il finale? È aperto, indeterminato.

Ecce Homo, ossia l’uomo è i suoi pensieri. Ma cosa spiega il suo raziocinio? La soluzione, misteriosissima, la svelano le melodie che si relazionano fino a disperdersi nella verticale componente armonica creando accordi lenti, meditati, conseguenti e consonanti, mentre linee di pensiero si dipanano collegandosi tra le infinite possibili relazioni che gli accordi suggeriscono, sempre unitarie e sempre differenti (e qui la chitarra, con i diversi significati che la stessa nota può assumere nelle diverse posizioni, la fa da padrona: ogni corda è uno strumento diverso).

La lotta non nell’accezione musicale classica ove, con il termine, si sottende l’incontro-scontro di più individualità (basti pensare all’etimologia del termine Concerto). Qui la lotta è tutta dell’unica voce che con ritmo scandito enuncia frasi squadrate e taglienti: lotta interiore? Forse, ma, andando avanti le frasi ritmicamente subentranti, pur strettamente correlate, modificano i termini del discorso e quindi anche lotta come necessità di evoluzione, come momento di crescita (la sfida insita nell’accettare il cambiamento). E così nella vertigine dell’accelerando finale si aprono nuove strade.

Homo cogitans. La misteriosa frase iniziale, in cui la nota conclusiva pare svanire, è rimarcata dalla seconda voce le cui sestine paiono pittura sonora della solitudine. Anche qui, solitudine interiore come stato di necessità dell’uomo che, per affrontare i suoi intimi percorsi, per guardare nell’abisso del suo io, deve affrontare strade deserte e ignote. Ma questa strada deve essere percorsa con calma, senza paura seguendo le vie che si apriranno. E il disegno sospeso delle sestine finali ci suggerisce infiniti percorsi.

Homo danza. Il tempo di danza ci iapre paesaggi di natura selvaggia, un ambiente completamente diverso dal mondo di pura introspezione creato dai tempi precedenti, con una nuova cifra di natura collettiva, ma due frasi interrompono questo momento dionisiaco, e il ripensamento in altra forma del materiale appena esposto e i sottintesi richiami ai tempi precedenti ci spiegano come l’uomo nelle sue diverse manifestazioni sia unità inscindibile. Questo lavoro di analisi (non posso fare a meno di pensare allo sviluppo sonatistico) finisce per cambiare l’orizzonte complessivo, per cui la ripresa del tempo di danza di questa (mi si lasci passare l’eresia) forma triparta assumerà veste nuova, non puro abbandono ma svelamento di un’altra faccia nel complicatissimo solido tridimensionale chiamato Homo.


Ero alle porte dell’Est, forse.

Da riascoltare più e più volte fino a cogliere le relazioni che si stabiliscono nell’accorta intelaiatura musicale ottenuta disponendo sezioni, frasi e periodi in un’ampia struttura ove le singole parti si corrispondono e contrappongono secondo un variegato fluire. Importantissimo tenere a mente la sezione d’esordio che funge da incipit con accenni, a volte criptici da musica reservata, dei pannelli futuri, quasi in una sorta di flashback al contrario. Le frasi scorrono ora con determinazione, ora sfuggenti fino all’ultimo frammento della sezione, dove compare una figura di carattere opposto dal sapore vago, riflessivo, misterioso. Segue un movimento di danza di andamento automatico, circolare (monotono insensibile) in cui a tratti pare echeggiare nell’inconscio, a ricordarci che nulla del nostro vissuto può essere perso, un’aura da complesso rock anni ’60 a cui segue, nel quadro successivo, un tempo di valzer che nel volgere di un battito lascia il posto ad una frase arcana, quasi un’eco appena percepibile e il contrasto tra i due elementi che si alternano nello stesso periodo (senza mai sovrapporsi) non potrebbe essere più profondo. Il brano procede tra figure fortemente ritmiche a volte caratterizzate da una sorta di fissità minimalistica che ci portano in una dimensione di estraniazione cosmica (nevrotico), momenti di puro, materico suono e momenti di colloquio interiore, frasi sussurrate fino a divenire impercettibili. Il suono è pensato in minute sfaccettature, ora fisso, ora cangiante, suono come valore, come pensiero autonomo e autosignificante, suono come ricerca, analizzato in tutte le gamme di colore possibili fino alle estreme conseguenze: assenza di suono. L’organizzazione interna di quadri può essere composita (struttura ABCA in Figure di latta che avanzano) o incalzante (Era lotta o forse danzavano) fino alla lunga frase finale ove i caratteri contrastanti della partitura sembrano trovare un punto d’incontro unificante in un’ampia meditazione conclusiva. Proprio questa considerazione finale rende possibile una diversa lettura di quest’ampio polittico, ove i diversi caratteri delineati possano esser l’immagine delle contrastanti facce di una stessa unità che, in accordo con il titolo e con le note esplicative, si completano in un territorio “al margine” o “di confine”, ove basta volgersi dall’altra parte per scrutare altri orizzonti che sono, comunque, elementi di cui siamo costituiti.


Sette lettere mai scritte.

Scrivere una lettera vuol dire entrare in contatto con il destinatario che potrà anche essere un immateriale pretesto per intraprendere un’analisi interfiore, vuol dire seguire il filo di un ragionamento, cercare un punto di partenza per giungere altrove. Il percorso che potrà portarci vicino oppure lontanissimo (ovviamente saranno possibili infiniti gradi intermedi) ma ciò che conta è il cammino. Sette lettere come metafora di sette percorsi mentali che possono procedere per logiche deduzioni avanzando per contrasti e per naturale trasformazione delle immagini sonore o in un unitario pensiero che magari si esaurisce in un aforistico spazio sonoro (ciao) o che, nel lento divenire, descrive indeterminate atmofere (” ……. “).


Francesco Silvestro chitarrista dal tocco incisivo e interprete attentissimo capace di infondere senso e fascino alla materia sonora.

Andrea Sava

25 Marzo 2014